lunedì 29 febbraio 2016

Lo storytelling e la cultura americana (non) raccontando "Spotlight"

Sono appena uscito dalla visione dello splendido "Spotlight" di Tom McCarthy, vincitore ai Premi Oscar 2016 come miglior film e miglior sceneggiatura originale. 
La scrittura di questo post è dettata in parte dall'adrenalina che solo una grande storia avvincente è in grado di fornire e in parte da una serie di riflessioni che questo film mi induce a condividere.

In una bellissima lezione di Alessandro Baricco ai ragazzi del Liceo Massimo D'Azeglio di Torino, lo scrittore campione di narcisismo ci spiega con esempi pratici come è possibile trasmettere, in maniera sostanzialmente subliminale, dei messaggi, dei valori attraverso le storie. Da qui l'importanza dello studio delle storie, dei "classici", in pratica le possibilità a cui può accedere con maggiore completezza un fortunato (forse senza saperlo e solo se nel suo percorso è inciampato su qualche bravo insegnante...) studente di liceo classico rispetto a chi, per motivi del tutto condivisibili oppure no, preferisce fare altre scelte educative. Lo dico da ex studente di liceo scientifico, orgoglioso di esserlo e che consiglierebbe a uno sveglio ragazzino delle medie il suo stesso percorso, ma con una notevole "invidia penis" per quelli studenti del classico che sono faticosamente riusciti a non farsi affogare dalla "totalizzazione" della cultura umanista, fermare dalle difficoltà dei ragionamenti logici e della matematica e possiedono un'apertura mentale importante.
Cosa dovrebbe portare, secondo Baricco, lo studio dei classici e delle storie? Strumenti per capire quei messaggi che le storie trasportano con sé, a volte mantenendoli inalterati a distanze di epoche e geografie differenti. Parla esplicitamente di "trucco": bisogna cercare di capire il trucco che ci sta dietro al motivo per cui una storia esiste e al come è stata raccontata, aggiungo io, per liberarla di quella patina che invece muta a seconda dei tempi e delle culture (il modo di diffonderla) e arrivare direttamente al messaggio, al valore trasportato, il quale ci pone inevitabilmente davanti a una riflessione personale su quel tema.
Conoscere le storie, studiarle e saperle interpretarle, tagliando con l'accetta "la cultura", serve (sempre semplificando) a non farsi "fregare" da chi ci racconta queste storie (in genere affascinanti) spesso con secondi fini, che, da sempre ma particolarmente nel periodo storico in cui stiamo vivendo ora, significa sostanzialmente commercio (lui dice "potere" e "denaro").

Nel corso del video, Baricco spiega praticamente il suo messaggio (racconta la sua storia e il valore che vuole trasmetterci attraverso di essa), curiosamente utilizzando come esempio non un libro ma un'opera lirica (probabilmente è proprio per questo che la sua storia ha fatto presa su di me, appassionato di musica, anziché annoiarmi) e il suo "storytelling" in tre versioni.
Non sto scrivendo per parafrasare le sue parole; ma per fondere questo concetto sicuramente importante con ciò che ho visto stasera. A 6.40 lo scrittore dice una cosa senza soffermarsi troppo, giusto come esempio, che a me è rimasta in mente per mesi, fino ad oggi: i film che andiamo a vedere al cinema, la cui distribuzione è massicciamente a favore delle pellicole americane, li guardiamo senza porci giustamente troppe domande, magari sono film anche leggeri, volutamente comici, di animazione (BELLISSIMO, come dice lui), che creano piacere e divertimento a tutti, dato che ce n'è per tutti i gusti. Ma quei film, che magari qualche regista o produttore sornione intervistato ci dirà che l'ha realizzato pensando a noi, al pubblico, trasporta due cose principalmente:

- denaro: un fiume di dollari si muove da tutto il mondo (in cui quel film è stato distribuito) ai suoi realizzatori (generalmente collocati in un punto ben più ristretto dell'intero emisfero, in questo caso gli Stati Uniti);
- valori: i valori della civiltà americana sono trasmessi sempre, che sia un sudista fascistoide come Chuck Norris o un giornalista politico come Michael Moore, anche quando è il film stesso a porre in discussione e a criticare i valori della civiltà americana sta comunque trasportando a noi fruitori quei valori.

Qui si chiude il mio filo diretto con quel video, di cui consiglio la visione integrale dato che spesso, e ovviamente in questo caso, un grande studioso di storie ne è anche un geniale creatore e trasmettitore e questa di Baricco lo è davvero.
La cosa che ho citato per me è di straordinaria importanza; perché ci pone davanti a un'imponente riflessione sulla nostra geografia d'appartenenza, che è scritta sulla carta d'identità ma che negli ultimi anni è diventata sempre più confusa a causa del rimpicciolimento del mondo, rispetto a quello che crediamo essere i nostri valori come persone e come società. Ha senso per un tredicenne di oggi parlare di "valore italiano" contrapposto a "valore francese" o di uno stato dell'Occidente a piacere? Temo di no.. Continua ad aver senso rispetto magari a uno stato mediorientale o sudamericano, forse.
Ma ho l'impressione che il mix di valori che caratterizza un italiano e un francese e un americano sia sempre più simile e, guarda caso, non siamo noi ad aver ceduto valori agli americani ma piuttosto viceversa. E ho l'impressione che se mai lo stato mediorientale dell'esempio precedente riuscirà ad avere un giorno volumi di scambi commerciali e sistemi istituzionali tali da garantire un benessere più o meno diffuso alla sua popolazione, come lo abbiamo noi (sempre per semplificare), un'analisi dei "valori" di quella società di allora ci darà risultati non troppo dissimili dai nostri.
Questo per dire che stiamo vivendo in un periodo di colonialismo culturale. Sogniamo cose che non sono effettivamente dovute a immagini del nostro reale, ma a pubblicità, a film, a prodotti culturali e commerciali del più grande esportatore di valori contemporaneo, che sono gli Stati Uniti d'America, dai quali dipendiamo non più solo praticamente (politica, energia, sistema finanziario strategie militari, ecc...) ma culturalmente, cosa ben più grave dato che teoricamente la cultura è libera e si nutre di pluralità e differenze, non di un solo padrone.

Questo è il motivo per cui, quando vedo un film hollywoodiano, anche se splendido, non posso fare a meno di notare quanto stia condizionando in quel momento la mia scala di valori, sogni e priorità. Non posso poi fare a meno di notare, perché sono tanti anni ormai che mi cimento nella fruizione delle storie nel senso baricchiano del termine, quali sono gli espedienti utilizzati dalla perfetta macchina del cinema per veicolare i propri valori. Il film che ho visto stasera è un ottimo esempio di come queste riflessioni portino ad un paradosso che è costantemente confermato e mai risolto e che si potrebbe esemplificare perfettamente dalle parole che Leonardo Di Caprio ha pronunciato ieri ricevendo il suo sudato primo Oscar, alla sesta candidatura, come miglior attore protagonista:

“Fare The Revenant ha significato lavorare sul rapporto fra l’uomo e il mondo naturale. Un mondo nel quale il 2015 è stato registrato come l’anno più caldo della storia. La nostra produzione ha dovuto spingersi fino all’estremità sud del Pianeta per trovare la neve. Il cambiamento climatico è reale, sta succedendo in questo momento. È la minaccia più urgente per tutta la nostra specie e abbiamo bisogno di lavorare collettivamente insieme smettendo di procrastinare. 
Dobbiamo sostenere i leader di tutto il mondo affinché non si facciano portavoci dei grandi inquinatori, ma parlino per tutta l’umanità, per le popolazioni indigene di tutto il mondo, per miliardi e miliardi di persone svantaggiate là fuori che sarebbero maggiormente colpite da questo. Per i figli dei nostri figli e per quelle persone là fuori la cui voce è stata soffocata dalla politica dell’avidità. Cerchiamo di non dare per scontato questo Pianeta, così come io non davo per scontata questa serata. Grazie mille”. 

Il paradosso è presto detto: come può essere un attore ultramilionario, all'interno di una delle più (se non la più) sfarzose e note manifestazioni dello spettacolo mondiale, un esclusivissimo club di straricchi a cui è ovviamente impossibile accedere, al punto che milioni di comuni telespettatori guardano, discutono e chiacchierano della manifestazione per il solo fatto che è esclusiva (!), uno dei "centravanti" di massima caratura di quel trasporto di valori attraverso le storie che gli Stati Uniti, paese tra i più inquinanti al mondo e maggiore responsabile dell'emissione di gas serra, spreco e consumo energetico, consumo delle acque, disboscamento e colpevole numero uno dei cambiamenti climatici, hanno diffuso su scala planetaria? Come può il signor Di Caprio parlare con fare serioso e allo stesso tempo sereno non solo di ambiente, ma anche di persone svantaggiate, di politica dell'avidità, quando il Paese principe dell'avidità è quello che gli ha permesso di essere quello che è, lo sta celebrando lì, nello stesso momento in cui stava pronunciando quelle parole? Ma anche: come può parlare così il protagonista di "The Wolf of Wall Street", film certamente (ma non così esplicitamente) critico nei confronti della vita di un broker, ma che ha reso indelebile nelle nostre menti piuttosto il tenore di vita, la ricchezza smodata, il lusso? Sfido qualunque maschio a non aver sperimentato, anche se solo per un secondo, un minimo di invidia e orgoglio per Jordan Belfort...
Allo stesso tempo però... Quanto quelle parole nude e crude, scevre dalla retorica che un americano ai microfoni in primis e una superstar del cinema in secundis si porta necessariamente con sé, sono sagge, magnifiche, illuminanti? Quanto assomigliano a quelle che il nostro capo di stato ideale (se esiste) pronuncerebbe? Ci stupiremmo se le avesse dette Papa Francesco? Che impatto mediatico positivo (e quindi che peso) possono avere sul mondo, dette dalla superstar eccetera eccetera che ho già definito?
E soprattutto... quanto Di Caprio, grazie alla (BELLISSIMA) storia che ci sta raccontando, sta ancora una volta contemporaneamente diffondendo i valori americani? Quelli di un paese che ha sempre l'eroe buono che trionfa, e lo sta premiando sotto gli occhi di tutti dopo ben 6 tentativi, perché l'America premia sempre, alla fine, il merito, la qualità, le persone che hanno un occhio di riguardo verso gli "svantaggiati" (cit.), ecc...

Non riesco a capire, insomma, quanto influisca la patina negativa che copre la storia, pur riconoscendo non solo che la storia è bella e raccontata benissimo, ma anche che è sinceramente nobile. Quanto non fidarmi della retorica rispetto alla sostanza. Quanto è l'America che vuole trasmettermi che è e sempre sarà la cosa più fica che io provincialotto in terra di mafia posso sognare e quanto invece sinceramente si prodiga per una giusta causa.
"Spotlight" è esattamente tutto ciò che ho raccontato finora. E' un film incalzante, un'inchiesta avvincente (e reale) sulla scoperta dell'insabbiamento da parte della Chiesa dei preti pedofili di Boston, che valse il Pulitzer al quotidiano che l'ha pubblicata e che diede il via allo scandalo mondiale dei preti pedofili. Il tema è delicato, certamente, ma nessuno può tifare per un pedofilo, anche se prete (e poi i tempi stanno velocemente cambiando anche in questo senso, per fortuna...), perciò lo spettatore è completamente immerso nel superlavoro della squadra d'inchiesta del giornale, il cui nome è lo stesso del film, provando un'empatia crescente nei confronti dei loro giornalisti, che si avvicinano alla verità e alle prove giorno dopo giorno e vedono ampliarsi a confini impensabili l'entità dello scandalo. Prova la loro rabbia, sente la loro fatica, le loro ore di lavoro, soffre con le vittime, aspetta con trepidazione il rullio delle macchine stampatrici in moto dopo mesi di inchiesta.
In un qualche modo "cristallizza" materialmente le proprie sensazioni e questa è una proprietà solo dei grandi film, secondo me.
Ma non può non notare allo stesso tempo quanto tutto a Hollywood deve trasformarsi in eroe, ma che dico, in supereroe. Quanto queste persone trascurino la propria famiglia, i propri affetti per il (giustissimo) lavoro. Quanto siano persone sole in mezzo ad altre persone sole, come soldati in missione. Quanto la loro efficienza sembri dovuta solo alla quantità del lavoro, mentre tutti sappiamo che le grandi cose, quelle che valgono i premi più rinomati come i Pulitzer (e gli Oscar), sono dovute, insieme alla perfezione, anche ad occasioni, inciampi e fortune, imprevisti insomma. Quanto le biografie di queste persone, che il film fa di tutto per rendere eroi (e probabilmente i giornalisti reali lo sono anche...), sono misere, trascurate, superflue, come a dire: è il lavoro che fai che dice chi sei, solo quello. Tutte sensazioni già provate anche per un altro film osannato, come Whiplash.
Se poi però uno pensa che abita nello stato che ospita il Vaticano e tra i titoli di coda, in cui vengono citati tutti gli stati del mondo in cui sono state aperte inchieste simili dopo la diffusione di questa, non legge il proprio, cioè l'Italia, a causa dei patti del Concordato che prevedono che qualsiasi inchiesta su prelati prima di cominciare debba prima essere comunicata alla Chiesa stessa (ok...), allora ti viene da dire: grazie giornalisti del Boston Globe, grazie America!

E nuovamente allora, uscendo dal cinema, mi chiedo: sono io che ho necessità di criticare il modello americano o forse ce li meritiamo questi neo-colonizzatori culturali?



sabato 21 novembre 2015

Gli sconvolgimenti della nuova fisica cap. I - Fisica classica

Oggi è il 21/11/15 ed esattamente 110 anni fa Albert Einstein pubblicava la sua Teoria della Relatività Speciale; quest'anno è anche il 100esimo anniversario della sua Teoria della Relatività Generale (1915).
Due straordinarie imprese intellettuali che sconvolsero per sempre il "vecchio" modo di fare scienza e di pensare alla natura delle cose. Due ottimi motivi per aprire una nuova serie di post (chissà mai quando le chiuderò tutte..) in cui vorrei mettere a confronto il "vecchio" modo di pensare la scienza e il metodo scientifico (le virgolette sono dovute al fatto che, nei termini e nel senso comune, il vecchio è tranquillamente ancora il contemporaneo modo di pensare) con il "nuovo", contemporaneo. Nel fare tutto ciò ringrazio 100, 1000 volte Fritjof Capra, autore dello splendido, illuminante, imprescindibile "Il Tao della Fisica" (Adelphi, 1982), di cui copio e riassumo alcune parti.

Trovo molto affascinante il fatto che siano esisti modi di pensare e di agire nella scienza che, a parte qualche piccola divagazione, sono rimasti sempre gli stessi nel corso di tanti secoli o comunque animati dalle medesime necessità e poi, con l'arrivo delle scoperte del XX secolo, siano stati completamente rivoluzionati, al punto da mettere in dubbio il senso stesso della parola scienza e del metodo scientifico.
Cito Heisenberg, fisico tedesco padre del noto principio di indeterminazione, da cui Walter White ha preso in prestito il nome: "La violenta reazione ai recenti sviluppi della fisica moderna può essere compresa soltanto se ci si rende conto che questa volta hanno cominciato a cedere i fondamenti stessi della fisica".
Cito Einstein, che provò la stessa impressione quando venne a contatto per la prima volta con la nuova realtà della fisica atomica: "Tutti i miei tentativi di adattare i fondamenti teorici della fisica a queste (nuove) acquisizioni fallirono completamente. Era come se ci fosse mancata la terra sotto i piedi..."
Questo perché le scoperte della fisica moderna rendevano indispensabili profondi cambiamenti in concetti quali spazio, tempo, materia, causa ed effetto, ecc..., da cui poi sarebbe emersa una nuova e radicalmente diversa concezione del mondo che è tuttora in corso di formazione!

Prima di tutto è però interessante capire "da dove veniamo" come si suol dire, ovvero quali sono quelle concezioni "obsolete" (secondo la nuova fisica) che non possono essere più accettate come realtà oggettive o sono state comunque superate, cioè la cosiddetta fisica classica; la cosa interessante che scopriremo è che queste concezioni hanno formato a tal punto la nostra mente, l'organizzazione e la razionalizzazione delle cose (quantomeno nel mondo occidentale) che tuttora restano l'architrave del nostro pensiero razionale.
Ma questo non è del tutto fuori luogo, anzi.
La fisica classica è di derivazione empirica (vedo un fenomeno, lo analizzo, invento un modello teorico a cui esso risponde, valido il modello con altri esempi) e perciò risponde perfettamente ai problemi di tipo "macroscopico", in quel range delle "medie dimensioni" in cui la fisica inserisce l'uomo e gli oggetti di cui è circondato; non solo: la fisica classica è in grado di spiegare perfettamente le leggi di gravità e del moto dei pianeti; è infine la base scientifica su cui è stato costruito il progresso tecnologico dell'uomo, influenzandone ampiamente la storia e la qualità della vita. E' stata superata dalle teorie successive, che non ne hanno mai messo in discussione la validità in quel range d'azione che ho descritto prima (peraltro il più importante ai fini pratici: è il NOSTRO!).
Eppure agli inizi del XX secolo la concezione meccanicistica classica fu abbandonata, quando la meccanica quantistica e la teoria della relatività (ovvero le due fondamentali teorie della fisica moderna)  costrinsero i fisici ad adottare una nuova concezione della natura molto più raffinata, che potremmo definire olistica ed "organicistica" per utilizzare le parole di Capra (si legga: la natura è molto meno divisoria e classificata di quanto non la pensi l'uomo per studiarla...)

Per fisica classica si intende la scienza costruita sul modello meccanicistico dell'universo ideato da Newton, una colonna portante formidabile che ha sorretto tutta la scienza e la filosofia naturale per almeno tre secoli.
Lo scenario in cui avevano luogo tutti i fenomeni fisici erano, secondo questo modello:

- lo spazio tridimensionale
- la geometria euclidea

concetti matematico-geometrici intuitivi prima che semplici, poiché ne facciamo uso in maniera più o meno inconscia tutti i giorni. Questo spazio era, secondo Newton, assoluto, sempre immobile, immutabile. Tutti i mutamenti che si verificavano erano descritti in funzione di un'entità separata rispetto allo spazio, che non aveva alcun legame col mondo materiale e che fluiva incessantemente dal passato al futuro attraverso il presente: il tempo, anch'esso assoluto. La concezione di tempo assoluto è forse la più radicata nella nostra forma mentis: il tempo che scorre sulla Terra è identico a quello che scorre su Marte (...o no?).
Questo per dire che gli elementi di base del modello newtoniano sono elementi comuni a tutti e ben comprensibili a causa di un corrispettivo esatto presente nella nostra vita.

Il concetto di materia secondo Newton era molto simile a quello degli atomisti greci (Democrito e seguaci): fatta di oggetti piccoli, solidi e indistruttibili. Da qui nascono le conseguenti identificazioni di pieno diverso da vuoto, di materia diversa da spazio e il fatto che questi elementi costituenti, queste particelle, rimanevano identiche a se stesse, non modificando la propria massa o forma. La materia è inerte e si conserva.
L'importante, fondamentale rivelazione di Newton rispetto agli atomisti greci è la sua precisa descrizione della forza che agisce tra queste particelle, una forza molto semplice, che dipende solo dalle masse e dalla reciproca distanza tra le particelle: la forza di gravità.
Per Newton questa forza è connessa esclusivamente agli oggetti su cui agisce, la sua azione è istantanea a qualsiasi distanza; il che è abbastanza singolare, ma di più su questo Newton non dice. E per i suoi tempi (fine seicento) forse aveva anche ragione: per Newton le particelle e le forze erano create da Dio e non potevano essere sottoposte a ulteriori analisi. Tutti gli eventi fisici riguardano moti di oggetti nello spazio, causati da un'attrazione reciproca di gravità.

Ora, a livello concettuale ci siamo (la solita mela che cade, ecc...) ma a livello matematico? Un fenomeno scientifico non può essere definito tale se non viene "astratto" in forma matematica; la genialità incomparabile di Newton è infatti questa: aver espresso in forma matematica il suo modo di vedere i fenomeni fisici. Per farlo, si inventò nuovi concetti matematici, come le tecniche del calcolo differenziale, che Einstein stesso definirà "forse il più grande progresso nel pensiero che un singolo individuo sia mai stato in grado di compiere". Einstein... mica Scilipoti!
Le equazioni di Newton sono le basi della meccanica classica, considerate immutabili e in grado di spiegare tutti i cambiamenti osservabili. L'Universo intero è una creazione divina, posta in movimento e governata da leggi immutabili. Questo pensiero scientifico ha importanti implicazioni filosofiche: tutto ciò che avviene ha una causa definita, che dà luogo a un effetto definito, perciò teoricamente prevedibile! Le basi di questi ragionamenti stanno in Aristotele innanzitutto e nel determinismo di Cartesio in secondo luogo: una divisione tra l'Io e il mondo che, come conseguenza, permette di descrivere il mondo in termini oggettivi e senza mai tener conto dell'osservatore umano.
Non solo, tutto ciò trova il suo riscontro empirico grazie al lavoro di Laplace, che perfezionò la matematica di Newton e coi suoi cinque volumi del Traité de mécanique céleste riuscì a spiegare i moti dei pianeti, della luna e delle comete sin nei minimi dettagli, dimostrando che le leggi di Newton assicuravano stabilità al sistema solare, come se esso fosse una gigantesca macchina capace di autoregolarsi.

Incoraggiati dai grandi successi in astronomia della meccanica newtoniana, i fisici la applicarono nei secoli al moto dei fluidi, alle vibrazioni dei corpi elastici e alla teoria del calore, con ottimi risultati; il che li portò a pensare, nell'ottocento, che Newton e Laplace avessero davvero ragione a definire l'universo in quei termini.
Ma fu proprio alla fine di quel secolo che la scoperta di una nuova realtà fisica rese evidenti i limiti del modello newtoniano, preparando così il campo alle rivoluzionarie scoperte di inizio novecento.
Ciò avvenne in maniera graduale e partì dallo studio sui fenomeni elettrici e magnetici: essi non potevano essere spiegati adeguatamente dal modello newtoniano e comportavano l'esistenza di un nuovo tipo di forza.
Ciò fu scoperto da due luminari della fisica Faraday e Maxwell. Il primo riuscì a convertire il lavoro (meccanico) necessario per far muovere una calamita in energia elettrica; al di là delle enormi implicazioni sulla tecnologia dell'ingegneria elettrica (il mondo come lo conosciamo oggi deve qualcosa a questo signore...) diede il via alla stesura della teoria dell'elettromagnetismo da parte di Maxwell, che sostituì il concetto di forza con quello di campo di forze: una carica negativa non attrae una positiva seguendo il modello di Newton (tipo Terra che attira la Luna per gravità), ma perché crea una perturbazione nello spazio circostante (il campo elettrico) tale che un'altra carica, se presente, si comporta come se avvertisse una forza.

Il campo è generato da una singola carica ed esiste indipendentemente dal fatto che un'altra carica sia presente o meno. Un cambiamento sconcertante nella concezione della fisica: le forze, per Newton, sono rigidamente connesse ai corpi materiali. Qui i campi possono essere studiati senza riferirsi alla materia!
Al punto più alto di questa teoria c'è la definizione della luce: è un campo elettromagnetico che oscilla e si sposta nello spazio sottoforma di onda.
Per Maxwell, figlio di secoli di cultura scientifica newtoniana (vien da pensare che se  avesse vissuto ai tempi di Galileo probabilmente sarebbe stato costretto ad abiurare la sua teoria...), dev'essere stato un bel grattacapo: come interpretare le nuove scoperte (i campi) secondo il modello meccanicistico? Impegnò buona parte della sua vita a provare a farlo, ma non riuscì ad abbracciare nessuna nuova teoria che potesse aggiustare questo "errore": in cuor suo probabilmente aveva capito che i campi sono un'entità fisica a sé stante, non spiegabili meccanicisticamente.
Da qui cominciano a vacillare non solo secoli di teorie (e credenze) scientifiche, ma anche il nostro modo di "concettualizzare" la fisica, di esprimerla a parole: una forza (soprattutto quella di gravità) ce la possiamo ben figurare in testa...ma un campo? Cos'è? E quali immagini potremmo utilizzare per descriverlo efficacemente?
Fu proprio Albert Einstein, quasi cinquant'anni dopo, a riconoscere e dimostrare la natura non meccanicistica dei campi, disponendo, a inizio '900, non più di un solo modello ma di due modelli (meccanica di Newton ed elettrodinamica di Maxwell) per descrivere fenomeni differenti...

mercoledì 18 novembre 2015

Tecniche cinematografiche: Rainer Werner Fassbinder

Ci sono alcuni ottimi motivi per ritenersi fortunati di abitare a Ferrara. Uno di questi è sicuramente il ciclo di conferenze promosso dall'Associazione Feedback, che si occupa di cinema e fotografia, grazie al quale è possibile ascoltare alcuni esperti e/o appassionati del settore parlare di registi noti e meno noti, ma in ogni caso di grandissimo spessore, per i quali è difficile formarsi un'opinione adeguata attraverso la semplice visione delle loro opere.
In questo periodo le conferenze trattano parallelamente due filoni: il cinema greco e quello tedesco, in una "contrapposizione" che prende spunto da quella attuale. Meno noto il primo, di più il secondo, l'ultima parte di questo ciclo riguarda i tre massimi esponenti del cosiddetto "nuovo cinema tedesco": Wim Wenders, Werner Herzog e Rainer Werner Fassbinder.
La conferenza su Fassbinder è stata condotta dal professor Sandro Sproccati dell'Accademia delle Belle Arti di Bologna, del quale avevo già sentito un paio di illuminanti conferenze (su Jean Vigo e su Elio Petri) sempre grazie alla Feedback. Splendida anche quella sul regista tedesco, della quale voglio riportare gli spunti che meglio ho filtrato.

Elementi essenziali

Fassbinder ha prodotto oltre trenta film in meno di vent'anni, prima che la sua vita fosse stroncata da un'overdose di cocaina che complicò definitivamente la sua salute già messa a dura prova da una vita spericolata.
Il suo primo lungometraggio si chiama "L'amore è più freddo della morte". Spesso la sua poetica si è diretta verso l'impossibilità di costruire rapporti amoroso-sessuali "definitivi" (si legga matrimonio) nell'era contemporanea, dominata dal mercato e dalla necessità di accumulare denaro; questa necessità è entrata talmente tanto nella nostra vita da influenzarla al punto che è impossibile accorgersi del suo dominio sul nostro agire. Il matrimonio è visto da Fassbinder in maniera sempre pessimista, una gabbia autodistruttiva che è frutto di un'idea borghese di convivenza e che però spezza completamente le velleità naturali e positive di costruzione di un rapporto sincero e benefico. Nei suoi film gli sposi sono vittime, uccidono e/o si suicidano, mentono al partner, a se stessi e ai figli, si associano per convenienza, si lasciano quando le bugie sono ormai troppo evidenti o quando il benessere materiale si è esaurito. Eppure, spesso, il tutto parte con buone intenzioni; la fine è solo una naturale conseguenza di qualcosa marcio in partenza o di un normalissimo andamento delle vicissitudini umane, in quanto così inconsciamente prese da un falso obiettivo (il bene mobile per eccellenza, il denaro) da produrre tragedie.
L'attacco ai "valori tradizionali" e all'ipocrisia della borghesia però non è così sfacciatamente evidente, come in molti film di registi a lui contemporanei (basti pensare, appunto, a Wim Wenders); Fassbinder è ad esempio lontano (non concettualmente, quanto piuttosto esteticamente) al neorealismo italiano, una corrente "maestra" nel denunciare scandali sociali e allo stesso tempo nello scoprire quanto il linguaggio cinematografico potesse essere un'arma universalmente potente per sensibilizzare la collettività (concetto ancor più prezioso se si pensa al tasso di analfabetizzazione nell'Italia del dopoguerra). La sua critica è sottile e tagliente, al punto da essere forse ancor più efficace, frutto di un'ingegnoso, sperimentale ed innovativo utilizzo delle tecniche cinematografiche.
Non bisogna poi pensare che essa fosse motivata dal suo orientamento sessuale (era omosessuale) in risposta ad una società bigotta: la Baviera del dopoguerra era sì una terra cattolica, ma niente a che vedere con l'Italia del dopoguerra.

Le lacrime amare di Petra von Kant (1972)

Copio da wiki: Petra Von Kant è una famosa stilista che vive sola con Marlene, la sua assistente apparentemente muta, la quale accetta i maltrattamenti e la severità della "padrona" senza battere ciglio. I due matrimoni di Petra sono finiti con la morte del primo marito e con il divorzio dal secondo; entrambi la hanno segnata profondamente. Un'amica le fa conoscere Karin, una ragazza giovane e bellissima, della quale Petra si innamora profondamente. Le due portano avanti una relazione ma col tempo Karin è sempre più fredda e crudele, e inizia a trattare Petra con sadismo, così come ella fa con Marlene. Ad un certo punto Karin lascia Petra per un uomo e questa cade in una profonda disperazione. 


La domanda che bisogna porsi prima di vedere la seguente, cruciale scena del film è: quali sono le peculiarità del linguaggio cinematografico rispetto a quello letterario? Per esempio: come possono uno scrittore e un regista descrivere una persona che sta mentendo ad un'altra? Per quanto riguarda il primo, esso può ricorrere ad un narratore onniscente e, dopo che il personaggio ha terminato il suo racconto menzognero, scrivere ad esempio "Mentiva, sapendo di mentire." Noi lettori leggeremmo tutto ciò e capiremmo in maniera molto naturale ciò che l'autore vuole comunicarci.

Da questo punto di vista il linguaggio cinematografico è meno potente. E' possibile anche in questo caso inserire una voce fuori campo che, su un fermo immagine della protagonista, ci dice esattamente la stessa cosa. Risulterebbe però, al contrario del libro, notevolmente più pesante (ed è il motivo per cui molto spesso i narratori onniscenti nei film in realtà sono personaggi del film stesso) oltre che banale.
In questa scena Petra sta spiegando all'amica com'è terminato il suo secondo matrimonio. Guardiamo prima la scena e poi vediamo di commentarla. Purtroppo sono riuscito a trovare solo il film (quantomeno in HD) in ungherese, ma sottotitolato in inglese. La scena va da 21.39 a 30.20. Per inserire i sottotitoli è necessario cliccare sull'icona della rotella in basso a destra.




Da notare immediatamente l'utilizzo dello specchio (tecnica che userà anche in altri film), che ci permette di vedere sia il volto di Petra che dell'amica, attonita dopo la notizia, in un'unica sequenza, senza dover operare stacchi di montaggio. E ci fa capire, anche dall'abbigliamento, come Petra, che sembrava così legata al marito, sia in realtà disinibita e libertina, a differenza dell'amica, ben più bigotta, avvolta nel suo bigotto visone vero. Seguendo il dialogo ci riconduciamo all'iniziale discorso sull'illusione dei rapporti e del matrimonio, che fallisce non tanto per motivi "pratici" come il tradimento, in quanto i due cercavano il piacere reciproco sopra ogni cosa, quanto per motivi che verrano spiegati dopo.
Eppure, proprio mentre Petra dice che la rottura non è dovuta a eventi o persone esterne (22.53), giunge proprio una persona esterna alla scena, ovvero l'assistente. Questo arrivo è ben sottolineato da entrambe le protagoniste: via lo specchio che ci dava le immagini di entrambe, sguardi puntati su di lei, telecamera che indugia sul suo volto. Coincidenze?
Il tè viene servito e "l'intrusa" si rimette al lavoro in secondo piano. Il discorso tra le due prosegue, con Petra che insiste nel dire che non c'è motivo di proseguire una relazione se i partner devono costringersi in cliché, in "ruoli" e che si è spezzato in realtà un sogno di voler rendere perfetto un amore, a cui seguono le finto-realistiche quanto bigotte (l'ho già detto?) risposte dell'amica. 
Ed ecco che a 27.19 parte un geniale, lentissimo carrello, che progressivamente inserisce l'inserviente-disegnatrice in mezzo alle due protagoniste, al punto che, a 28.31, giunge al suo culmine, con l'amica che si riposa sul letto in realtà per far vedere nella stessa inquadratura Petra e l'inserviente. Noi sappiamo che Petra sta parlando all'amica, il suo sguardo è rivolto in basso a sinistra, eppure, nella scena, che dura alcuni minuti, c'è anche l'inserviente, teoricamente estranea. Perché? 
Proprio mentre Petra sta spiegando i motivi che hanno portato al divorzio, ecco che l'inserviente diventa protagonista, smettendo di dipingere e girandosi verso di lei (29.18), con la camera che pian piano va a catturare il suo sguardo avvilito. E da qui, noi capiamo che Petra sta mentendo all'amica.
Guardando il resto della pellicola, capiremo il reale orientamento sessuale di Petra (omosessuale) e che la vera causa del suo divorzio è stato proprio questo: una relazione clandestina con la sua inserviente (donna). 
La chiusa di questa scena magistrale è però il vero capolavoro. A 30.01 c'è uno stacco focale molto evidente, sfoca l'inserviente e ci riporta (dopo qualche secondo) sul volto di Petra perfettamente a fuoco; teoricamente questo sarebbe un enorme errore tecnico, un po' come guardare in camera per l'attore. O lo stacco è rapido, oppure si toglie il fuoco dall'inserviente e si passa a Petra anch'essa sfocata, per poi rimetterle il fuoco successivamente, ma non si toglie il fuoco per un lungo tempo da un personaggio e si stacca su un altro perfettamente a fuoco!
Ovviamente non si tratta di un errore, ma di un espediente cinematografico (impossibile con il linguaggio letterario) a dimostrare quanto a Petra, che sa bene il vero motivo del divorzio, non interessi minimamente la sua inserviente con cui ha avuto una relazione; la sua sfacciataggine è evidente nelle parole che sta rivolgendo all'amica (bugie), la durezza del suo cuore lo è in questo splendido passaggio focale.
Fassbinder, con due tecniche semplicissime e note sin dagli albori del cinema (movimento di camera e inquadratura dei personaggi), utilizzate però in maniera straordinariamente sapiente ed innovativa, coglie gli aspetti peculiari del linguaggio cinematografico, esaltandolo, rendendolo univoco, raffinato e potente.


Martha (1974)

Wikipedia: Marta è una giovane donna che lavora presso la biblioteca di Costanza, in Germania. Durante un viaggio in Italia rimane orfana del padre che si accascia, colpito da infarto, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Poco dopo intravede un uomo di sfuggita. Il loro sguardo, che si incrocia per un attimo, fissa il triste destino dell'ignara Martha.
Tornata in Germania, viene a conoscere Helmut, un uomo all'apparenza perfetto: un buon lavoro nell'industria del cemento, una bella casa, parole giuste per ogni occasione, tanto che risulta anche noioso. Egli non è altro che l'uomo intravisto all'inizio. I due si sposano e la donna è inizialmente felice. Tuttavia l'eccessiva "normalità" dell'uomo si rivela piano piano repressiva nei confronti di Martha, che viene sottoposta a una continua violenza psicologica, ed Helmut arriva anche a violentarla. Martha viene plasmata: per gelosia il marito arriva a proibirle persino di uscire di casa. Inoltre, infuriato per i suoi gusti musicali (lei ama Donizetti come il padre mentre il marito vuole imporle Orlando di Lasso, meno "svenevole" secondo i suoi gusti) e perché non ha apprezzato un libro sull'industria del cemento che le è stato imposto, abbandona la casa per qualche giorno, trovando al ritorno i desideri realizzati.
Martha precipita progressivamente in una forma di terrore misto a follia, cui fa da pendant la condotta del marito, per il quale la moglie è sostanzialmente il mobile più prezioso e piacevole della sua bella ed austera casa, oltre che una delle fonti della rispettabilità della sua posizione in società.
Martha è paralizzata, succube senza motivo di un uomo che ormai sembra essere arrivato a possederla totalmente, privandola di ogni volontà autonoma. La scena forse più intensa è quella in cui la reclusa Martha, spesso lasciata sola dal marito fuori per lavoro, decide di comprare un gatto per sentire la vicinanza di un essere vivente. Helmut le fa poi trovare morta la povera bestia, e Martha, china a terra sul corpo esanime dell'animale e in preda alla disperazione, viene violentemente presa da Helmut che la possiede "con passione".
Martha, piena di graffi in viso, vorrebbe raccontare le violenze subite ad un'amica, ma non ci riesce, perché pensa che non le crederebbe. L'ultima speranza è un amico che si era offerto di aiutarla e che lei tenta disperatamente di contattare. Trovatolo, è in preda al terrore ed è convinta che il marito la stia seguendo. Saliti in macchina, accelerano perché Martha crede che l'automobile del marito la stia seguendo (ma in realtà si tratta di un veicolo che nulla ha a che fare con la vicenda), e nell'incidente che ne deriva l'amico di Martha muore e lei perde l'uso delle gambe.
Ultima scena: Martha è nel letto di ospedale. L'infermiera le dà la triste notizia lasciandole però intendere che per fortuna avrà sempre al suo fianco un marito irreprensibile e premuroso come Helmut (che, non abbandonandola, rivela una fedeltà che potremmo dire morbosa).

Una delle scene più note girate da Fassbinder è proprio l'incontro iniziale tra i due protagonisti, a cui seguirà una tragica storia d'amore sadomasochista. 





Lo sguardo tra i due si trasforma in un inviluppo incessante, un colpo di fulmine tramutato in spire avvolgenti ma anche vagamente sinistre, che presagisce quanto i due, in futuro si troveranno dipendenti l'uno dall'altro, senza possibilità d'uscita. L'effetto è reso talmente alla perfezione che i protagonisti sembrano girare su se stessi, quasi ballassero un valzer. In realtà stanno semplicemente camminando in direzioni opposte, si incontrano, si guardano e passano oltre. La camera però, gira attorno a loro in maniera talmente rapida e precisa da creare un clamoroso effetto a spirale; un effetto che crea e insieme sottolinea lo sconvolgimento dei due dovuto a quell'incontro e, parallelamente, quello di noi spettatori.
Curioso è notare come il passo "effeminato" accennato da Bohm a 0.49 sia dovuto alla sua necessità di scavalcare un ostacolo: è in effetti il carrello che ha permesso di girare questa scena circolare.

Una probabile "auto-citazione" di questa scena è presente anche in Roulette Cinese del 1976, in cui un becero rapporto di coppia tra borghesi, rovinato da anni di menzogne e tradimenti, si rinfranca (grazie ad una tragedia) nel finale con questa splendida sequenza, che vede i due prima avvolti in una spirale cinematografica, poi abbracciarsi calorosamente. Un abbraccio che però è una farsa, è tardivo e nemmeno sincero, considerando il passato dei due; Fassbinder ce lo sottolinea chiaramente, in quanto la camera smette di ruotare proprio quando, a 1.19.53, l'angolo della vetrina si frappone tra i due "amanti", indugiando su questa separazione visivo-metaforica. 


Ho riportato 2 film su 5 visionati durante la serata (Lola, Roulette cinese, Effi Briest sono le altre tre pellicole scelte da Sproccati) e la produzione di Fassbinder supera abbondantemente i 30. La pochezza di queste righe è dunque notevole, ma a mio parere si tratta un cinema di indubbia qualità ed interesse, che spero di riuscire ad approfondire e di trattare nuovamente.

lunedì 12 ottobre 2015

Gli "standards": odio e amore

Un mio amico una volta mi chiese "Che disco devo ascoltare per iniziare ad ascoltare jazz? Kind of Blue?". Questa domanda in realtà non ha risposta, ma Kind of Blue di Miles Davis (https://youtu.be/j9QXpfvgSVk) è spesso una risposta musicale a tante domande. 
E' un disco meraviglioso, con musicisti sublimi e registrato con una qualità insuperata. Questi tre sono alcuni dei tanti motivi per cui è forse il disco di jazz più noto, più venduto, uno dei più godibili, uno di quelli che arriva subito anche se non hai mai ascoltato jazz. 
Eppure per me non avrebbe molto senso rispondere "sì" alla domanda del mio amico, in quanto quel disco è jazz, va certamente incontro a quello che noi pensiamo sia jazz, all'immaginario collettivo, ma addirittura in maniera eccessiva, al punto che è facile convincersi che tante altre cose non lo siano e non rientrino in quei canoni. Inoltre utilizza delle soluzioni armoniche (i cosiddetti modi, per cui è un disco del cosiddetto periodo del "jazz modale", ma penso ne parlerò in un altro intervento) che nella storia del jazz hanno certamente trovato ampio spazio, ma volendo essere obiettivi ne descrivono una piccola parte. 
Se si ascolta Kind Of Blue poi qualcosa di Ornette Coleman come The Shape Of Jazz To Come (https://youtu.be/Lbt9DDolcag), altra pietra miliare di questa musica, forse ci si fa un po' di domande su che caspita si sta ascoltando e magari ci si rende conto che ci vorrebbe troppo tempo, troppa pazienza, troppe conoscenze per godere di quella musica. Chi te lo fa fare? O, senza voler essere così celebrali, ci comunica poco, ci emoziona poco, ci può risultare un arido esercizio di tecnica un linguaggio che non ci appartiene o, peggio, un ammasso di musicisti che suona "a caso".

Credo sia necessario, se uno vuole introdursi nell'ascolto di questa musica, aver ben chiara la distinzione tra ciò che è l'immaginario jazzistico coi suoi canoni più scontati ed una certa modalità di fare musica che ho provato a spiegare nel post precedente. Con questo non sto facendo una graduatoria o svilendo qualcosa; sto dicendo semplicemente che l'immaginario è un insieme di etichette che ci aiuta a far chiarezza superficialmente, molto comodo ma che spesso, per comodità e pigrizia, ci impedisce di andare oltre e di giudicare in maniera obiettiva. 

Come forse si è percepito, nei confronti di questo immaginario ho un vero e proprio rapporto di amore/odio. Mi affascina e allo stesso tempo mi annoia; mi appare a primo acchito facilissimo da capire e da dominare, poi ci provo e mi sembra impossibile; è musica oggigiorno "appartenente" a persone con cui difficilmente vorrei anche solo prendere un caffè, poi però invidio il loro status di fama e probabilmente anche il loro conto in banca.
Il conservatorio mi ha fin da subito messo in chiaro che il "mestiere" del jazzista è questo, che il jazz di cui ci si occupa e che studierò è questo, che i requisiti minimi sono, al di là delle conoscenze teoriche e della pratica strumentale, saper suonare i cosiddetti standard, che non sono altro che una quantità enorme di brani della tradizione americana (per lo più canzoni) "evergreen", di cui esistono numerose interpretazioni da parte di svariati artisti e che nel corso della storia i jazzisti hanno fatto propri e hanno usato come terreno comune, come linguaggio per suonare insieme.
Sono brani che, per il loro aspetto melodico evidente, per la loro struttura semplice e ripetuta (generalmente AABA, con un tema principale detto A alternato ad un più articolato tema B), per la loro armonia "esatta" e "risolta", risultano orecchiabili, "classici", emanano un senso di glorioso passato e, confrontati con le canzoni pop attuali (perché, a suo tempo, erano considerati pop o comunque musica commerciale negli Stati Uniti), risultano qualitativamente superiori sotto tanti aspetti.

Quando si parla di standard si sta parlando di Broadway: negli anni '20 il jazz era un genere musicale giovane giovane e chiaramente non poteva aver ancora uno sguardo retrospettivo su se stesso; dagli anni '30 fino alla fine degli anni '50 invece i jazzisti cominciano a ripercorrere e reinterpretare brani famosi, tra cui chiaramente ci sono anche quelli dei jazzisti stessi, ma che per lo più derivano dalle canzoni di Broadway. Ecco qualche esempio con alcune tra le interpretazioni più famose:

- Body And Soul 
https://youtu.be/zUFg6HvljDE

- All The Things You Are https://youtu.be/UTORd2Y_X6U

- Summertime https://youtu.be/LkJiiJsZplc

- 'Round Midnight https://youtu.be/HZskBDZ40os

- My Funny Valentine https://youtu.be/jvXywhJpOKs

- Lover Man https://youtu.be/thSfGPZGmnQ

- What Is This Thing Called Love https://youtu.be/qo2P7AhMbxk

- Stella By Starlight https://youtu.be/XGx1HvLV_NQ

e si potrebbe andare avanti a lungo.
Da soli, questi 8 brani e i rispettivi interpreti potrebbero comodamente tirare da soli le linee guida dell'immaginario collettivo jazz a cui mi riferivo prima (e grazie, si sta poi parlando di Monk, Miles Davis, Armstrong, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, ...) praticamente su tutti gli aspetti: timbro, melodia, armonia, ritmo (per lo più medium swing o ballad), interpretazione, solismo, sensazioni evocate... Tutti questi aspetti sono talmente peculiari del jazz e allo stesso tempo così evidenti e potenti che si cristallizzano nella nostra memoria, aiutandoci a far chiarezza, a dare delle etichette.

Brani bellissimi, esecutori memorabili, quindi dove sta il problema? Il problema non sta nell'ascoltare questo o quel disco, ma nel nel suonarli!
Uno di questi 8 brani periodicamente esce in tutte le jam session; suonato sempre nello stesso modo, poiché l'importante è ricordarsi il tema principale, gli accordi, trovare un inizio e una fine, rispettare i turni degli assoli (spesso un momento di autoerotismo del musicista) e il gioco e fatto. Risultato? Una palla mostruosa! Cambi jam session, cambi locale, cambi città, ottenendo sempre lo stesso risultato: stessi pezzi, stessi sguardi compiaciuti, stesse "etichette", quelle che dicevo prima.
Dove sta il problema? Sta nel studiarli! Perché suonare jazz deve significare per forza suonare questi brani? Chiaro che ci si affaccia ad una musica non "nostra", quindi bisogna rispettare le sue regole e le sue tradizioni... Ma se siamo d'accordo sulle tradizioni è molto difficile esserlo anche sulle regole! Spesso poi i jazzisti in erba studiano gli standard così: con video di questo tipo, suonando davanti a una base (https://youtu.be/x3MCogBc5d0) e davanti a libroni chiamati "Fake book" (https://archive.org/details/fakebooks), che raccolgono spartiti spesso pieni di errori e assolutamente asettici, giusto per sapere appunto tema, accordi e struttura, le ossa degli standard (che però non sono mai indimenticabili finché non vi è quella "polpa" che vi inseriscono gli interpreti sublimi).


Questi e molti altri motivi mi hanno sempre fatto dubitare di questi brani, del loro studio, della loro importanza privilegiata rispetto ad altre cose meno note e a mio parere anche più belle. Eppure, come dicevo prima, è innegabile che l'ascolto degli standard è anche per me fonte di una completezza e una rassicurazione senza pari, come sentirsi a casa in una sera di pioggia a mangiare cioccolata.
Un disco su tutti per me rappresenta il DNA di questa sensazione: sentirsi "a casa", sentire il "jazz" dai suoi maestri, capire le unicità di questa musica rispetto alle altre, apporre e leggere le giuste etichette. Il disco si chiama "'Round About Midnight", di Miles Davis.



Questo è l'album che avrei consigliato al mio amico di inizio post. L'album che consiglierei come "inizio", per capire l'habitat di questa musica, i punti chiave.

- E' suonato da 5 musicisti che, singolarmente, hanno fatto la storia del loro strumento: Miles Davis alla tromba, John Coltrane al sax, Red Garland al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Philly Joe Jones alla batteria. 


- E' composto essenzialmente di standard, perciò brani molto noti all'interno di un contesto jazzistico e di facile reperibilità anche in altre interpretazioni

- Miles Davis utilizza il quintetto come fosse il regista di una troupe cinematografica: gioca molto sui diversi ruoli tra solisti e sezione ritmica che accompagna, privilegiando talvolta l'uno talvolta l'altro; suona in un registro piccolo e con dinamica generalmente contenuta, opposta a Coltrane che usa un ampio registro, un suono esuberante e una dinamica medio-forte, creando un contrasto di "personalità". Tutto per favorire una visione d'insieme magnifica, un'unica squadra che gioca in piena armonia, creando tanti piccoli colpi di genio più dovuti all'ascolto reciproco che alla singola intuizione. 

- L'ascoltatore si inserisce all'interno di un "ambiente" sonoro, come direbbe Brian Eno, che non si scorderà più. Dopo questo disco, una persona che non si è mai affacciata a questa musica ha molti più elementi per definire un contesto jazzistico, sia dopo un primo ascolto, sia riascoltandolo magari dopo anni.

'Round About Midnight è un esperimento di Davis su come suonare 
in quintetto materiale jazzisticamente ultranoto e, mettendoci la sua impronta carismatica, ha definito IL modo per suonare quel materiale. Basta fare un salto ad una jam session di medio livello per capire che i musicisti sul palco stanno cercando di ricreare quel mood, quell'interplay, quelle linee, quelle improvvisazioni in maniera generica, secondo me anche involontariamente, senza per forza pensare a questo disco specifico.
Quello che sto dicendo è a mio parere concentrato in maniera esemplare in questo brano:



E' un piano trio, una delle formazioni più classiche in ambito jazzistico, ed è composto da tre colonne portanti del jazz moderno "idiomatico", potremmo dire i migliori nell'eseguire il repertorio degli standard: Keith Jarrett al piano, Gary Peacock al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria. Sicuramente uno dei trii più pagati al mondo, basta vedere i prezzi dei loro biglietti per rendersi conto della differenza rispetto a un concerto generico. Basta sentire per cosa è famoso Jarrett al di là della sua musica (scenate per le foto, doppia limousine all'albergo, doppio Steinway per i concerti...)
Eleganza suprema. Una pulizia incredibile, un controllo negli assoli pazzesco (splendida la modulazione metrica di batteria nel finale, in cui DeJohnette passa dallo swing a un tempo terzinato con una naturalezza disarmante),  un dialogo serrato,  un "tiro" magistrale (anche qui basta focalizzare l'ascolto sul piatto della batteria per sentire come lo swing, tempo per definizione "appoggiato" e rilassato, venga teso in avanti, ma senza sforzo, veloce e morbido allo stesso tempo). 

Ascoltare questo trio mi provoca gioia nell'ascolto, rabbia al pensiero di cosa (e come) suonano i jazzisti più pagati al mondo (classici, stereotipi, standards, presa sul pubblico assicurata), dolore al pensiero della mia condizione di semplice studente, alla ricerca quotidiana di un grammo, ma che dico, di una briciola di tale genio e raffinatezza.

lunedì 28 settembre 2015

Cos'è per me il jazz

Sarà stato il 2010 più o meno in cui mi sono imbattuto in due dischi di Dizzy Gillespie, "Gillespiana: live at Carnegie Hall" con la sua orchestra e "Diz & Getz" in coppia con Stan Getz e da quel momento ho capito che di quella musica dovevo saperne il più possibile. Ha radicalmente trasformato il mio modo di ascoltare, suonare, di emozionarmi, di vivere la musica stessa.
Cosa ascoltavo prima? Principalmente reggae e musica giamaicana. Sprazzi di soul, funk. Tutta musica che presentava un groove robusto e ben piazzato su bassi profondi. Era un periodo in cui temevo di non capire nulla di jazz, che fosse necessario possedere conoscenze musicali storico-tecniche molto raffinate. Cosa che in parte è vero, come per tutte le arti, più ne sai, meglio te le godi. Eppure percepivo che nel jazz c'era molto di ciò che ricercavo dall'ascoltare musica.
Un altro ostacolo verso questi ascolti era dovuto alla discografia sterminata, alla presenza di musicisti famosi e molto ingombranti, a suo tempo visti tutti come pari, tipo Miles Davis, John Coltrane, Charlie Parker, ecc.. Da chi cominciare? E perché? Meglio fare un percorso cronologico o stilistico?
Ho cominciato da quei due dischi abbastanza per caso e negli anni, come a macchia d'olio, facendo collegamenti tra i musicisti che han suonato con questo o con quello, sono arrivato a delineare qualche contorno (storico e stilistico) di questa musica, cercando sempre di privilegiare ciò che più si avvicinasse ai miei gusti ma anche di dar spazio a quei dischi che sono considerati imprescindibili nella storia del jazz.

Dopo anni di ascolto, ho capito che la nota risposta data da Louis Armstrong alla domanda "Che cos'è il jazz?", ovvero "
Se hai bisogno di chiedere cos'è il jazz, non lo saprai mai" è in buona parte azzeccata: è molto complicato definire questa musica attraverso degli stilemi strumentali (si fa jazz con buona parte degli strumenti inventati dall'uomo), tecnici (coesistono sia la raffinata armonia classica con le più animalesche dissonanze), timbrici o anche più semplicisticamente di sensazioni provate. Nel jazz c'è veramente di tutto, basta ascoltarne un po' per capirlo.
Esistono dei luoghi comuni angoscianti: musica afro-americana, musica basata sull'improvvisazione, musica dove c'è un sax o un contrabbasso suonato senza archetto, musica da aperitivo o da ristorante elegante, e così via...
Eppure tutti i luoghi comuni, per quanto errati, hanno un fondo di verità: su dieci ascolti tipicamente "jazz", in nove si può sentire il batterista picchiare sul ride (il piatto grande che solitamente il batterista tiene alla sua destra) o sull'hi-hat (più noto come "charleston") in un modo inconfondibile (che è poi lo swing), il bassista, spesso con contrabbasso (strumento altrimenti usato in musica classica o nel folk e in pochi altri contesti acustici) suonare una nota ogni battito (il walking bass), notare la presenza di strumenti a fiato (anch'essi "emancipati" dalle orchestre di musica classica, come il sax o la tromba), un'alternanza più o meno equilibrata di assoli (improvvisazione) in cui, le prime volte, ci pare che i musicisti suonino a caso, un evidente richiamo a modi di fare, lingue ("yeah" scandito dal pubblico o da un musicista sul palco) e movenze che sono lontane dai nostri modi di fare ma che vengono presi in prestito per sentirsi più "parte di questo qualcosa", risate e sguardi di scambio tra i musicisti (che sottolineano l'interplay tra di loro), locali tipicamente eleganti (almeno di facciata..) e possibilmente costosi, spruzzate di radical chic sinistroide e così via...

E' difficile definire il jazz, in quanto PER DEFINIZIONE ha fagocitato tutto ciò che si metteva sul suo cammino (musica classica, gospel, blues, funk, musica africana, brasiliana, asiatica, pop, rock, hip hop, ... e l'elenco è davvero interminabile). E' più semplice definirne i contorni, i luoghi comuni e, per comodità, trovare delle cose che storicamente si sono ripetute per poterne tirare le fila, affermare "questo è jazz", "sto ascoltando jazz", "sto suonando jazz" e così via...


Un discorso che, paragonato che so alla questione dei migranti, risulta insignificante e frutto di una mente che ha poco su cui riflettere. Eppure attorno a questa faccenda ci girano milioni di euro di show business. Esistono musicisti strapagati, milionari, bravi tanto quanto altri, storici e importanti tanto quanto altri che invece impallidirebbero nel vedere gli assegni dei primi. Questo molto spesso è dovuto al fatto che questi primi suonano quello che il pubblico conosce, crede di conoscere, ha già sentito, mentre i secondi si sforzano a ricercare ancora qualcosa di diverso, insolito, non sentito, "stupefacente".
Chi fa jazz e chi no? Il jazz è una musica che vive e si nutre del diverso, dell'estemporaneo e del contemporaneo, dell'innovazione. Già il fatto che sia da qualche anno all'interno di un'istituzione chiamata "conservatorio" è un paradosso vivente. Forse è anche per questo che alcuni oggi dicono che questa musica, come tante musiche, sia morta. In parte questo è vero.
Per esempio, seguendo la biografia di questa musica, probabilmente oggi un jazzista sarebbe davvero tale se facesse i conti con la musica techno! John Coltrane ha sollevato un polverone enorme quando, negli anni '60, ha cominciato a suonare delle musiche assolutamente allucinate e allucinanti, usando prettamente scale modali e pentatoniche (tra le più antiche che si conoscono), liberandosi del giogo dell'armonia (il frutto della musica vissuta e studiata "razionalmente" dagli europei) e dando il via a quella felice e sempre fertile era del "free jazz". Molti dei suoi ascoltatori hanno definito quelli gli album più brutti della sua carriera (su tutti Wynton Marsalis), altri li considerano seminali. Miles Davis ha sollevato un polverone enorme quando ha unito la sua musica ai sintetizzatori. Molti dei suoi ascoltatori hanno definito quella fase la più brutta della sua carriera, altri, per quanto leggermente in imbarazzo, non possono far altro che notare come Miles sia stato sempre un passo avanti a tutti in ogni fase della sua mirabolante storia di uomo e di artista.Ricorda un po' la vicenda di quando Bob Dylan "elettrificò" la sua chitarra e il suo sound e la gran parte dei suoi numerosissimi fan gridò al tradimento. 
Questo, quelli sopracitati e in generale i punti di frattura tra un artista ben affermato e il suo pubblico (che poi significa anche con una buona fetta del suo reddito e lo scombussolamento di produttori, agenzie di stampa, pubblicità e tutto ciò che ci campa grazie alle sue opere e che punta al successo costante e alla stabilità) è, secondo il mio modesto parere, ciò che più si avvicina all'essere "jazz".
Credo che il jazz viva innanzitutto di ironia e creatività ed è per questo che ritengo sia una musica così affascinante. E' una lotta costante dell'artista nei confronti del comodo, del già fatto e già sentito, della noia, del conservatorismo, dell'appiattimento culturale, del pubblico "pagante" (che quindi deve avere sempre ragione), delle convenzioni, della moda. Una ricerca verso la Verità, verso se stessi, verso le proprie radici. Uno scavare interiormente verso quel bambino giocoso che tutti possediamo, limitato in un goffo, ingombrante e problematico corpo da adulto. Il tutto possibilmente fatto con una tecnica strumentale fuori dall'ordinario, con un suono unico, che descriva perfettamente la propria personalità, a velocità di metronomo folli, mantenendo un controllo e un'eleganza impeccabili.


https://youtu.be/iSY2WeKw3Yk

sabato 26 settembre 2015

Il Blues cap. I - Accordi di dominante

Il blues è una delle forme musicali più immediate da riconoscere, si è diffuso globalmente e ha influenzato un'enorme quantità di artisti e di generi musicali e può essere considerato l'esempio più noto di musica popolare afroamericana.

Al di là delle numerosissime forme che possono rientrare nel grande calderone di questo genere musicale (è troppo semplicistico e penso anche errato definire, come fa wiki, che "la forma originale è caratterizzata da una struttura ripetitiva di dodici battute", dato che parliamo di una musica nata e diffusasi oralmente per decine di anni prima di essere stampata, per cui è impossibile pensare che sia nata con un numero di battute ben noto e costante), ci sono alcuni elementi identificativi pressoché comuni:



- gli accordi di "dominante"
- i "gradi" di questi accordi
- le "blue notes"


Vediamo punto per punto.

Gli accordi di dominante

Sono accordi caratterizzati da quattro note suonate contemporaneamente e vengono generalmente indicati con la sigla dell'accordo e il numero 7 a fianco, nominati "accordi di settima" o "accordi di dominante"  (es: Do settima = Do7). Queste note sono:

1) La tonica (1)
2) La terza maggiore (3M)
3) La quinta (5)
4) La settima minore (7b, con la b di bemolle per far capire che si tratta della settima abbassata di un bemolle, cioè di un semitono)

Per esempio se prendiamo le note della scala di Do, cioè tutti i tasti bianchi della tastiera

Do, re, mi fa sol, la, si

possiamo numerare le sette note della scala

Do, re, mi, fa, sol, la, si
1  , 2  , 3  , 4  , 5  , 6 , 7

e di queste sette prendiamo quelle 4 elencate prima, ovvero

Do    Mi    Sol    Sib (ovvero il Si abbassato di un semitono)

che suonate insieme costituiscono l'accordo di dominante Do7.
Un esempio: 
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/70/Septymowo_dominanta.ogg

Gli accordi di dominante hanno un suono riconoscibilissimo, sono infatti accordi "sospesi" poiché la presenza di quella settima minore o bemolle conferisce una sensazione di respiro strozzato in gola, come essere sul ciglio di un trampolino prima che qualcuno ci butti in piscina... creano quella che si definisce una "tensione", percepibile anche fisicamente. Deve succedere qualcosa per sentirsi rilassati, "a casa" come amano dire i musicisti.

Quello che succede nell'armonia classica europea (e NON nel blues, cosa che appunto fa assurgere questo discorso sugli accordi di dominante uno dei punti chiave di questa musica) è che questi accordi devono assolutamente essere "risolti", cosa che in genere avviene così:

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/07/V7-I_resolution.mid

Quello che si sente è lo stesso accordo di dominante ripetuto tre volte che "risolve" sull'accordo di tonica. Che cos'è un accordo di tonica? E' quello che definisce la tonalità del pezzo, la "casa" appunto. Esempio tipico, mai sentito "sonata in do maggiore del ceffo taidei tali"? Il Do maggiore è appunto l'accordo di tonica.

Nell'armonia classica europea, la tonalità del pezzo, cioè l'accordo di tonica è un vero e proprio centro gravitazionale, come il sole rispetto ai suoi pianeti: tutti gli accordi che si sentono nel brano sono definiti e posizionati in funzione di quell'accordo di tonica, che ci definisce, anche in maniera emotiva, una situazione di stabilità del brano. In questo modo le sensazioni che si generano (inquietudine come gioia, potenza come calma, terrore come ironia....) sono in gran parte dovute al rapporto coesistente tra quest'accordo "mamma" o "casa" e tutti gli altri altri che attorno ad esso è possibile costruire per creare effetti e colori diversi.

Il secondo audio, quello dei tre dominanti che risolvono, definisce appunto la tipica risoluzione di quella tensione posseduta dall'accordo di dominante: la risoluzione sull'accordo di tonica. Questa risoluzione è talmente "necessaria", quasi scontata, al punto che questo movimento (dominante a cui segue tonica) prende il nome di "cadenza perfetta" ed è la maniera con cui chiude in genere un brano di musica classica.

Tutto questo per dire che nel blues questo non succede: l'accordo di dominante non risolve, non va da nessuna parte, quella tensione rimane così com'è senza giungere al suo accordo di tonica. Tra le tante strutture del blues, una delle più semplici è costituita da 3 accordi, Do, Fa e Sol. Al di là delle strutture però, di cui parlerò nel prossimo capitolo, è importante notare che sono 12 battute di SOLI accordi di dominante, uno per battuta:

Do7  | Do7  | Do7  | Do7  |

Fa7  | Fa7  | Do7  | Do7  |

Sol7  | Sol7  | Do7  
| Do7  |

Ormai, dopo decenni di ascolti e diffusione di questa musica, il nostro orecchio si è abituato a sentire gli accordi di dominante quasi come stabili (non come trecento anni fa, in cui se in una partitura un accordo di dominante non veniva risolto su un accordo di tonica si era espulsi e derisi in qualsiasi scuola di musica...).

Eppure questa scelta armonica, una tensione che non va da nessuna parte ma anzi è seguita da un altro accordo di tensione anziché da uno di risoluzione, ha comportato una rivoluzione fondamentale nei gusti, nelle orecchie, nelle musiche e di conseguenza nelle vite di tante persone. Ancor'oggi, nonostante non ci risulti così strano che un accordo di dominante sia seguito da un altro di dominante (abituati da tanti ascolti rock e di derivati), quindi non risolto, questa scelta ci fa percepire il colore della musica che stiamo ascoltando: un blues o un jazz. Ci porta alla mente campi di cotone e schiavi africani, cantastorie rovinati dalla vita, alcolici e polvere da sparo... ma anche fumosi locali, cocktail lisci, cappelli e impermeabili, eleganza mascolina, un'America che tutti almeno una volta abbiamo sognato e che è possibile ritrovare visivamente nella splendida serie AMC "Mad Man".

La chiave del blues, non solo musicale, intendo proprio a livello stilistico e anche "filosofico" è dunque una dissonanza reiterata. Qualcosa che va esattamente nella direzione opposta del concetto stesso di "armonia", quella europea, in cui è invece la consonanza, l'ordine, la perfezione, la spinta verso il puro e il celestiale a dettare legge e a spingere i compositori a comporre.
Probabilmente è anche per questo che il blues è fin dalla sua nascita e nell'immaginario comune la musica ritenuta "del diavolo", generata da cantastorie, ladri, ubriaconi (a proposito di questo tema consiglio questa raccolta di blues pre- e post-carcere: 
http://www.amazon.it/dp/B007549L9K), suonata in sudici locali da sgangherati musicisti, genitrice del rhythm&blues e del rock, musiche ad alto tasso danzereccio, promiscue ed erotiche. 
Personalmente ritengo sia questa la spiegazione del suo fascino misterioso, del suo magnetismo. Come un brivido che ci percorre ogni volta che stiamo per fare qualcosa di errato o di pericoloso (agli occhi del mondo o più semplicemente della nostra coscienza), il blues genera un misto di sensazioni, di atmosfere, di ricordi. Saranno le non-risoluzioni, le stonature volute delle "blue notes" (di cui poi parlerò), questo camminare sul filo tra l'artista e il dilettante della musica, l'improvvisazione senza alcun canovaccio scritto...
E' una musica che non appartiene alla nostra storia, è qualcosa di prettamente americano e più specificamente afro-americano. Eppure ci è magicamente famigliare, come se risollevasse qualcosa che è dentro di noi, impolverato da anni di moralismi e "culture ufficiali".

Nel 1929 una delle figure più importanti di questa musica, specialmente del cosiddetto "Delta Blues", ovvero Charley Patton, registra le sue magiche dissonanze reiterate e non risolte, sia con la voce che con la chitarra, storcendo, piegando, "stonando", addomesticando le note al favore delle sue emozioni e delle nostre.

https://youtu.be/JZ1zOarIoEA

Post 0 - Cultural Radar

Questo blog nasce da una personale necessità di ricercare persone interessate e sensibili agli argomenti qui trattati.

Dopo alcuni anni in cui ho speso piccole o grandi parti delle mie giornate a leggere, ascoltare, visualizzare e studiare molteplici argomenti, ho cominciato a delineare i contorni dei miei gusti e delle mie passioni. Provo a parlarne su questa piattaforma pubblica, convinto del fatto che esistano tante persone che possiedono una sensibilità simile alla mia, con cui ho intenzione di disquisire e cercare nuovi elementi di riflessione.

Credo che questo periodo storico sia caratterizzato da una scarsa "qualità emotiva". Si sperimentano emozioni grossolane ("tristezza", "felicità", "odio", "amore", "apatia"...); non ci si interroga a sufficienza sul perché certe cose colpiscono proprio noi e non altri; non si rapporta la causa con la nostra biografia, unica per definizione; è molto difficile definire in maniera puntuale un sentimento con tutte le sue sfaccettature e senza semplificare, al fine di farsi capire; si delinea una curiosa contraddizione tra l'importanza assunta dalle decisioni prese "istintivamente" (che, non si capisce perché, al giorno d'oggi sembra siano le uniche a cui dobbiamo dare ragione, a scapito delle scelte razionali e ponderate, viste come "filtrate" e non sincere) e la sempre più debole volontà di "vivere per emozionarsi", un abbandono totale alle sensazioni e alla bellezza, un godimento gratuito e senza scopo, un distacco dal materiale, dal pratico, dal necessario.

Questa piattaforma vuole essere invece un punto di incontro tra persone che coltivano la propria curiosità in maniera totalmente gratuita, appagate solo dalla soddisfazione ricevuta dal comprendere qualcosa, dallo sperimentare qualcosa, senza per forza doverlo mettere in pratica. Un punto di incontro, ma anche un "motore di ricerca" nello sconfinato universo del web, attraverso cui desidero captare intelligenze a me sconosciute, come un radar appunto.


Parlerò specialmente di musica, il tema che più mi è famigliare, ma anche di scienze, storia, cinema, sport, politica, economia, arte e più in generale tutto ciò che mi spinge a volerne apprendere sempre più.

Francesco Zaccanti