lunedì 12 ottobre 2015

Gli "standards": odio e amore

Un mio amico una volta mi chiese "Che disco devo ascoltare per iniziare ad ascoltare jazz? Kind of Blue?". Questa domanda in realtà non ha risposta, ma Kind of Blue di Miles Davis (https://youtu.be/j9QXpfvgSVk) è spesso una risposta musicale a tante domande. 
E' un disco meraviglioso, con musicisti sublimi e registrato con una qualità insuperata. Questi tre sono alcuni dei tanti motivi per cui è forse il disco di jazz più noto, più venduto, uno dei più godibili, uno di quelli che arriva subito anche se non hai mai ascoltato jazz. 
Eppure per me non avrebbe molto senso rispondere "sì" alla domanda del mio amico, in quanto quel disco è jazz, va certamente incontro a quello che noi pensiamo sia jazz, all'immaginario collettivo, ma addirittura in maniera eccessiva, al punto che è facile convincersi che tante altre cose non lo siano e non rientrino in quei canoni. Inoltre utilizza delle soluzioni armoniche (i cosiddetti modi, per cui è un disco del cosiddetto periodo del "jazz modale", ma penso ne parlerò in un altro intervento) che nella storia del jazz hanno certamente trovato ampio spazio, ma volendo essere obiettivi ne descrivono una piccola parte. 
Se si ascolta Kind Of Blue poi qualcosa di Ornette Coleman come The Shape Of Jazz To Come (https://youtu.be/Lbt9DDolcag), altra pietra miliare di questa musica, forse ci si fa un po' di domande su che caspita si sta ascoltando e magari ci si rende conto che ci vorrebbe troppo tempo, troppa pazienza, troppe conoscenze per godere di quella musica. Chi te lo fa fare? O, senza voler essere così celebrali, ci comunica poco, ci emoziona poco, ci può risultare un arido esercizio di tecnica un linguaggio che non ci appartiene o, peggio, un ammasso di musicisti che suona "a caso".

Credo sia necessario, se uno vuole introdursi nell'ascolto di questa musica, aver ben chiara la distinzione tra ciò che è l'immaginario jazzistico coi suoi canoni più scontati ed una certa modalità di fare musica che ho provato a spiegare nel post precedente. Con questo non sto facendo una graduatoria o svilendo qualcosa; sto dicendo semplicemente che l'immaginario è un insieme di etichette che ci aiuta a far chiarezza superficialmente, molto comodo ma che spesso, per comodità e pigrizia, ci impedisce di andare oltre e di giudicare in maniera obiettiva. 

Come forse si è percepito, nei confronti di questo immaginario ho un vero e proprio rapporto di amore/odio. Mi affascina e allo stesso tempo mi annoia; mi appare a primo acchito facilissimo da capire e da dominare, poi ci provo e mi sembra impossibile; è musica oggigiorno "appartenente" a persone con cui difficilmente vorrei anche solo prendere un caffè, poi però invidio il loro status di fama e probabilmente anche il loro conto in banca.
Il conservatorio mi ha fin da subito messo in chiaro che il "mestiere" del jazzista è questo, che il jazz di cui ci si occupa e che studierò è questo, che i requisiti minimi sono, al di là delle conoscenze teoriche e della pratica strumentale, saper suonare i cosiddetti standard, che non sono altro che una quantità enorme di brani della tradizione americana (per lo più canzoni) "evergreen", di cui esistono numerose interpretazioni da parte di svariati artisti e che nel corso della storia i jazzisti hanno fatto propri e hanno usato come terreno comune, come linguaggio per suonare insieme.
Sono brani che, per il loro aspetto melodico evidente, per la loro struttura semplice e ripetuta (generalmente AABA, con un tema principale detto A alternato ad un più articolato tema B), per la loro armonia "esatta" e "risolta", risultano orecchiabili, "classici", emanano un senso di glorioso passato e, confrontati con le canzoni pop attuali (perché, a suo tempo, erano considerati pop o comunque musica commerciale negli Stati Uniti), risultano qualitativamente superiori sotto tanti aspetti.

Quando si parla di standard si sta parlando di Broadway: negli anni '20 il jazz era un genere musicale giovane giovane e chiaramente non poteva aver ancora uno sguardo retrospettivo su se stesso; dagli anni '30 fino alla fine degli anni '50 invece i jazzisti cominciano a ripercorrere e reinterpretare brani famosi, tra cui chiaramente ci sono anche quelli dei jazzisti stessi, ma che per lo più derivano dalle canzoni di Broadway. Ecco qualche esempio con alcune tra le interpretazioni più famose:

- Body And Soul 
https://youtu.be/zUFg6HvljDE

- All The Things You Are https://youtu.be/UTORd2Y_X6U

- Summertime https://youtu.be/LkJiiJsZplc

- 'Round Midnight https://youtu.be/HZskBDZ40os

- My Funny Valentine https://youtu.be/jvXywhJpOKs

- Lover Man https://youtu.be/thSfGPZGmnQ

- What Is This Thing Called Love https://youtu.be/qo2P7AhMbxk

- Stella By Starlight https://youtu.be/XGx1HvLV_NQ

e si potrebbe andare avanti a lungo.
Da soli, questi 8 brani e i rispettivi interpreti potrebbero comodamente tirare da soli le linee guida dell'immaginario collettivo jazz a cui mi riferivo prima (e grazie, si sta poi parlando di Monk, Miles Davis, Armstrong, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, ...) praticamente su tutti gli aspetti: timbro, melodia, armonia, ritmo (per lo più medium swing o ballad), interpretazione, solismo, sensazioni evocate... Tutti questi aspetti sono talmente peculiari del jazz e allo stesso tempo così evidenti e potenti che si cristallizzano nella nostra memoria, aiutandoci a far chiarezza, a dare delle etichette.

Brani bellissimi, esecutori memorabili, quindi dove sta il problema? Il problema non sta nell'ascoltare questo o quel disco, ma nel nel suonarli!
Uno di questi 8 brani periodicamente esce in tutte le jam session; suonato sempre nello stesso modo, poiché l'importante è ricordarsi il tema principale, gli accordi, trovare un inizio e una fine, rispettare i turni degli assoli (spesso un momento di autoerotismo del musicista) e il gioco e fatto. Risultato? Una palla mostruosa! Cambi jam session, cambi locale, cambi città, ottenendo sempre lo stesso risultato: stessi pezzi, stessi sguardi compiaciuti, stesse "etichette", quelle che dicevo prima.
Dove sta il problema? Sta nel studiarli! Perché suonare jazz deve significare per forza suonare questi brani? Chiaro che ci si affaccia ad una musica non "nostra", quindi bisogna rispettare le sue regole e le sue tradizioni... Ma se siamo d'accordo sulle tradizioni è molto difficile esserlo anche sulle regole! Spesso poi i jazzisti in erba studiano gli standard così: con video di questo tipo, suonando davanti a una base (https://youtu.be/x3MCogBc5d0) e davanti a libroni chiamati "Fake book" (https://archive.org/details/fakebooks), che raccolgono spartiti spesso pieni di errori e assolutamente asettici, giusto per sapere appunto tema, accordi e struttura, le ossa degli standard (che però non sono mai indimenticabili finché non vi è quella "polpa" che vi inseriscono gli interpreti sublimi).


Questi e molti altri motivi mi hanno sempre fatto dubitare di questi brani, del loro studio, della loro importanza privilegiata rispetto ad altre cose meno note e a mio parere anche più belle. Eppure, come dicevo prima, è innegabile che l'ascolto degli standard è anche per me fonte di una completezza e una rassicurazione senza pari, come sentirsi a casa in una sera di pioggia a mangiare cioccolata.
Un disco su tutti per me rappresenta il DNA di questa sensazione: sentirsi "a casa", sentire il "jazz" dai suoi maestri, capire le unicità di questa musica rispetto alle altre, apporre e leggere le giuste etichette. Il disco si chiama "'Round About Midnight", di Miles Davis.



Questo è l'album che avrei consigliato al mio amico di inizio post. L'album che consiglierei come "inizio", per capire l'habitat di questa musica, i punti chiave.

- E' suonato da 5 musicisti che, singolarmente, hanno fatto la storia del loro strumento: Miles Davis alla tromba, John Coltrane al sax, Red Garland al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Philly Joe Jones alla batteria. 


- E' composto essenzialmente di standard, perciò brani molto noti all'interno di un contesto jazzistico e di facile reperibilità anche in altre interpretazioni

- Miles Davis utilizza il quintetto come fosse il regista di una troupe cinematografica: gioca molto sui diversi ruoli tra solisti e sezione ritmica che accompagna, privilegiando talvolta l'uno talvolta l'altro; suona in un registro piccolo e con dinamica generalmente contenuta, opposta a Coltrane che usa un ampio registro, un suono esuberante e una dinamica medio-forte, creando un contrasto di "personalità". Tutto per favorire una visione d'insieme magnifica, un'unica squadra che gioca in piena armonia, creando tanti piccoli colpi di genio più dovuti all'ascolto reciproco che alla singola intuizione. 

- L'ascoltatore si inserisce all'interno di un "ambiente" sonoro, come direbbe Brian Eno, che non si scorderà più. Dopo questo disco, una persona che non si è mai affacciata a questa musica ha molti più elementi per definire un contesto jazzistico, sia dopo un primo ascolto, sia riascoltandolo magari dopo anni.

'Round About Midnight è un esperimento di Davis su come suonare 
in quintetto materiale jazzisticamente ultranoto e, mettendoci la sua impronta carismatica, ha definito IL modo per suonare quel materiale. Basta fare un salto ad una jam session di medio livello per capire che i musicisti sul palco stanno cercando di ricreare quel mood, quell'interplay, quelle linee, quelle improvvisazioni in maniera generica, secondo me anche involontariamente, senza per forza pensare a questo disco specifico.
Quello che sto dicendo è a mio parere concentrato in maniera esemplare in questo brano:



E' un piano trio, una delle formazioni più classiche in ambito jazzistico, ed è composto da tre colonne portanti del jazz moderno "idiomatico", potremmo dire i migliori nell'eseguire il repertorio degli standard: Keith Jarrett al piano, Gary Peacock al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria. Sicuramente uno dei trii più pagati al mondo, basta vedere i prezzi dei loro biglietti per rendersi conto della differenza rispetto a un concerto generico. Basta sentire per cosa è famoso Jarrett al di là della sua musica (scenate per le foto, doppia limousine all'albergo, doppio Steinway per i concerti...)
Eleganza suprema. Una pulizia incredibile, un controllo negli assoli pazzesco (splendida la modulazione metrica di batteria nel finale, in cui DeJohnette passa dallo swing a un tempo terzinato con una naturalezza disarmante),  un dialogo serrato,  un "tiro" magistrale (anche qui basta focalizzare l'ascolto sul piatto della batteria per sentire come lo swing, tempo per definizione "appoggiato" e rilassato, venga teso in avanti, ma senza sforzo, veloce e morbido allo stesso tempo). 

Ascoltare questo trio mi provoca gioia nell'ascolto, rabbia al pensiero di cosa (e come) suonano i jazzisti più pagati al mondo (classici, stereotipi, standards, presa sul pubblico assicurata), dolore al pensiero della mia condizione di semplice studente, alla ricerca quotidiana di un grammo, ma che dico, di una briciola di tale genio e raffinatezza.

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