lunedì 29 febbraio 2016

Lo storytelling e la cultura americana (non) raccontando "Spotlight"

Sono appena uscito dalla visione dello splendido "Spotlight" di Tom McCarthy, vincitore ai Premi Oscar 2016 come miglior film e miglior sceneggiatura originale. 
La scrittura di questo post è dettata in parte dall'adrenalina che solo una grande storia avvincente è in grado di fornire e in parte da una serie di riflessioni che questo film mi induce a condividere.

In una bellissima lezione di Alessandro Baricco ai ragazzi del Liceo Massimo D'Azeglio di Torino, lo scrittore campione di narcisismo ci spiega con esempi pratici come è possibile trasmettere, in maniera sostanzialmente subliminale, dei messaggi, dei valori attraverso le storie. Da qui l'importanza dello studio delle storie, dei "classici", in pratica le possibilità a cui può accedere con maggiore completezza un fortunato (forse senza saperlo e solo se nel suo percorso è inciampato su qualche bravo insegnante...) studente di liceo classico rispetto a chi, per motivi del tutto condivisibili oppure no, preferisce fare altre scelte educative. Lo dico da ex studente di liceo scientifico, orgoglioso di esserlo e che consiglierebbe a uno sveglio ragazzino delle medie il suo stesso percorso, ma con una notevole "invidia penis" per quelli studenti del classico che sono faticosamente riusciti a non farsi affogare dalla "totalizzazione" della cultura umanista, fermare dalle difficoltà dei ragionamenti logici e della matematica e possiedono un'apertura mentale importante.
Cosa dovrebbe portare, secondo Baricco, lo studio dei classici e delle storie? Strumenti per capire quei messaggi che le storie trasportano con sé, a volte mantenendoli inalterati a distanze di epoche e geografie differenti. Parla esplicitamente di "trucco": bisogna cercare di capire il trucco che ci sta dietro al motivo per cui una storia esiste e al come è stata raccontata, aggiungo io, per liberarla di quella patina che invece muta a seconda dei tempi e delle culture (il modo di diffonderla) e arrivare direttamente al messaggio, al valore trasportato, il quale ci pone inevitabilmente davanti a una riflessione personale su quel tema.
Conoscere le storie, studiarle e saperle interpretarle, tagliando con l'accetta "la cultura", serve (sempre semplificando) a non farsi "fregare" da chi ci racconta queste storie (in genere affascinanti) spesso con secondi fini, che, da sempre ma particolarmente nel periodo storico in cui stiamo vivendo ora, significa sostanzialmente commercio (lui dice "potere" e "denaro").

Nel corso del video, Baricco spiega praticamente il suo messaggio (racconta la sua storia e il valore che vuole trasmetterci attraverso di essa), curiosamente utilizzando come esempio non un libro ma un'opera lirica (probabilmente è proprio per questo che la sua storia ha fatto presa su di me, appassionato di musica, anziché annoiarmi) e il suo "storytelling" in tre versioni.
Non sto scrivendo per parafrasare le sue parole; ma per fondere questo concetto sicuramente importante con ciò che ho visto stasera. A 6.40 lo scrittore dice una cosa senza soffermarsi troppo, giusto come esempio, che a me è rimasta in mente per mesi, fino ad oggi: i film che andiamo a vedere al cinema, la cui distribuzione è massicciamente a favore delle pellicole americane, li guardiamo senza porci giustamente troppe domande, magari sono film anche leggeri, volutamente comici, di animazione (BELLISSIMO, come dice lui), che creano piacere e divertimento a tutti, dato che ce n'è per tutti i gusti. Ma quei film, che magari qualche regista o produttore sornione intervistato ci dirà che l'ha realizzato pensando a noi, al pubblico, trasporta due cose principalmente:

- denaro: un fiume di dollari si muove da tutto il mondo (in cui quel film è stato distribuito) ai suoi realizzatori (generalmente collocati in un punto ben più ristretto dell'intero emisfero, in questo caso gli Stati Uniti);
- valori: i valori della civiltà americana sono trasmessi sempre, che sia un sudista fascistoide come Chuck Norris o un giornalista politico come Michael Moore, anche quando è il film stesso a porre in discussione e a criticare i valori della civiltà americana sta comunque trasportando a noi fruitori quei valori.

Qui si chiude il mio filo diretto con quel video, di cui consiglio la visione integrale dato che spesso, e ovviamente in questo caso, un grande studioso di storie ne è anche un geniale creatore e trasmettitore e questa di Baricco lo è davvero.
La cosa che ho citato per me è di straordinaria importanza; perché ci pone davanti a un'imponente riflessione sulla nostra geografia d'appartenenza, che è scritta sulla carta d'identità ma che negli ultimi anni è diventata sempre più confusa a causa del rimpicciolimento del mondo, rispetto a quello che crediamo essere i nostri valori come persone e come società. Ha senso per un tredicenne di oggi parlare di "valore italiano" contrapposto a "valore francese" o di uno stato dell'Occidente a piacere? Temo di no.. Continua ad aver senso rispetto magari a uno stato mediorientale o sudamericano, forse.
Ma ho l'impressione che il mix di valori che caratterizza un italiano e un francese e un americano sia sempre più simile e, guarda caso, non siamo noi ad aver ceduto valori agli americani ma piuttosto viceversa. E ho l'impressione che se mai lo stato mediorientale dell'esempio precedente riuscirà ad avere un giorno volumi di scambi commerciali e sistemi istituzionali tali da garantire un benessere più o meno diffuso alla sua popolazione, come lo abbiamo noi (sempre per semplificare), un'analisi dei "valori" di quella società di allora ci darà risultati non troppo dissimili dai nostri.
Questo per dire che stiamo vivendo in un periodo di colonialismo culturale. Sogniamo cose che non sono effettivamente dovute a immagini del nostro reale, ma a pubblicità, a film, a prodotti culturali e commerciali del più grande esportatore di valori contemporaneo, che sono gli Stati Uniti d'America, dai quali dipendiamo non più solo praticamente (politica, energia, sistema finanziario strategie militari, ecc...) ma culturalmente, cosa ben più grave dato che teoricamente la cultura è libera e si nutre di pluralità e differenze, non di un solo padrone.

Questo è il motivo per cui, quando vedo un film hollywoodiano, anche se splendido, non posso fare a meno di notare quanto stia condizionando in quel momento la mia scala di valori, sogni e priorità. Non posso poi fare a meno di notare, perché sono tanti anni ormai che mi cimento nella fruizione delle storie nel senso baricchiano del termine, quali sono gli espedienti utilizzati dalla perfetta macchina del cinema per veicolare i propri valori. Il film che ho visto stasera è un ottimo esempio di come queste riflessioni portino ad un paradosso che è costantemente confermato e mai risolto e che si potrebbe esemplificare perfettamente dalle parole che Leonardo Di Caprio ha pronunciato ieri ricevendo il suo sudato primo Oscar, alla sesta candidatura, come miglior attore protagonista:

“Fare The Revenant ha significato lavorare sul rapporto fra l’uomo e il mondo naturale. Un mondo nel quale il 2015 è stato registrato come l’anno più caldo della storia. La nostra produzione ha dovuto spingersi fino all’estremità sud del Pianeta per trovare la neve. Il cambiamento climatico è reale, sta succedendo in questo momento. È la minaccia più urgente per tutta la nostra specie e abbiamo bisogno di lavorare collettivamente insieme smettendo di procrastinare. 
Dobbiamo sostenere i leader di tutto il mondo affinché non si facciano portavoci dei grandi inquinatori, ma parlino per tutta l’umanità, per le popolazioni indigene di tutto il mondo, per miliardi e miliardi di persone svantaggiate là fuori che sarebbero maggiormente colpite da questo. Per i figli dei nostri figli e per quelle persone là fuori la cui voce è stata soffocata dalla politica dell’avidità. Cerchiamo di non dare per scontato questo Pianeta, così come io non davo per scontata questa serata. Grazie mille”. 

Il paradosso è presto detto: come può essere un attore ultramilionario, all'interno di una delle più (se non la più) sfarzose e note manifestazioni dello spettacolo mondiale, un esclusivissimo club di straricchi a cui è ovviamente impossibile accedere, al punto che milioni di comuni telespettatori guardano, discutono e chiacchierano della manifestazione per il solo fatto che è esclusiva (!), uno dei "centravanti" di massima caratura di quel trasporto di valori attraverso le storie che gli Stati Uniti, paese tra i più inquinanti al mondo e maggiore responsabile dell'emissione di gas serra, spreco e consumo energetico, consumo delle acque, disboscamento e colpevole numero uno dei cambiamenti climatici, hanno diffuso su scala planetaria? Come può il signor Di Caprio parlare con fare serioso e allo stesso tempo sereno non solo di ambiente, ma anche di persone svantaggiate, di politica dell'avidità, quando il Paese principe dell'avidità è quello che gli ha permesso di essere quello che è, lo sta celebrando lì, nello stesso momento in cui stava pronunciando quelle parole? Ma anche: come può parlare così il protagonista di "The Wolf of Wall Street", film certamente (ma non così esplicitamente) critico nei confronti della vita di un broker, ma che ha reso indelebile nelle nostre menti piuttosto il tenore di vita, la ricchezza smodata, il lusso? Sfido qualunque maschio a non aver sperimentato, anche se solo per un secondo, un minimo di invidia e orgoglio per Jordan Belfort...
Allo stesso tempo però... Quanto quelle parole nude e crude, scevre dalla retorica che un americano ai microfoni in primis e una superstar del cinema in secundis si porta necessariamente con sé, sono sagge, magnifiche, illuminanti? Quanto assomigliano a quelle che il nostro capo di stato ideale (se esiste) pronuncerebbe? Ci stupiremmo se le avesse dette Papa Francesco? Che impatto mediatico positivo (e quindi che peso) possono avere sul mondo, dette dalla superstar eccetera eccetera che ho già definito?
E soprattutto... quanto Di Caprio, grazie alla (BELLISSIMA) storia che ci sta raccontando, sta ancora una volta contemporaneamente diffondendo i valori americani? Quelli di un paese che ha sempre l'eroe buono che trionfa, e lo sta premiando sotto gli occhi di tutti dopo ben 6 tentativi, perché l'America premia sempre, alla fine, il merito, la qualità, le persone che hanno un occhio di riguardo verso gli "svantaggiati" (cit.), ecc...

Non riesco a capire, insomma, quanto influisca la patina negativa che copre la storia, pur riconoscendo non solo che la storia è bella e raccontata benissimo, ma anche che è sinceramente nobile. Quanto non fidarmi della retorica rispetto alla sostanza. Quanto è l'America che vuole trasmettermi che è e sempre sarà la cosa più fica che io provincialotto in terra di mafia posso sognare e quanto invece sinceramente si prodiga per una giusta causa.
"Spotlight" è esattamente tutto ciò che ho raccontato finora. E' un film incalzante, un'inchiesta avvincente (e reale) sulla scoperta dell'insabbiamento da parte della Chiesa dei preti pedofili di Boston, che valse il Pulitzer al quotidiano che l'ha pubblicata e che diede il via allo scandalo mondiale dei preti pedofili. Il tema è delicato, certamente, ma nessuno può tifare per un pedofilo, anche se prete (e poi i tempi stanno velocemente cambiando anche in questo senso, per fortuna...), perciò lo spettatore è completamente immerso nel superlavoro della squadra d'inchiesta del giornale, il cui nome è lo stesso del film, provando un'empatia crescente nei confronti dei loro giornalisti, che si avvicinano alla verità e alle prove giorno dopo giorno e vedono ampliarsi a confini impensabili l'entità dello scandalo. Prova la loro rabbia, sente la loro fatica, le loro ore di lavoro, soffre con le vittime, aspetta con trepidazione il rullio delle macchine stampatrici in moto dopo mesi di inchiesta.
In un qualche modo "cristallizza" materialmente le proprie sensazioni e questa è una proprietà solo dei grandi film, secondo me.
Ma non può non notare allo stesso tempo quanto tutto a Hollywood deve trasformarsi in eroe, ma che dico, in supereroe. Quanto queste persone trascurino la propria famiglia, i propri affetti per il (giustissimo) lavoro. Quanto siano persone sole in mezzo ad altre persone sole, come soldati in missione. Quanto la loro efficienza sembri dovuta solo alla quantità del lavoro, mentre tutti sappiamo che le grandi cose, quelle che valgono i premi più rinomati come i Pulitzer (e gli Oscar), sono dovute, insieme alla perfezione, anche ad occasioni, inciampi e fortune, imprevisti insomma. Quanto le biografie di queste persone, che il film fa di tutto per rendere eroi (e probabilmente i giornalisti reali lo sono anche...), sono misere, trascurate, superflue, come a dire: è il lavoro che fai che dice chi sei, solo quello. Tutte sensazioni già provate anche per un altro film osannato, come Whiplash.
Se poi però uno pensa che abita nello stato che ospita il Vaticano e tra i titoli di coda, in cui vengono citati tutti gli stati del mondo in cui sono state aperte inchieste simili dopo la diffusione di questa, non legge il proprio, cioè l'Italia, a causa dei patti del Concordato che prevedono che qualsiasi inchiesta su prelati prima di cominciare debba prima essere comunicata alla Chiesa stessa (ok...), allora ti viene da dire: grazie giornalisti del Boston Globe, grazie America!

E nuovamente allora, uscendo dal cinema, mi chiedo: sono io che ho necessità di criticare il modello americano o forse ce li meritiamo questi neo-colonizzatori culturali?